Investimenti & Tecnologie

Deep sea mining: un’opportunità o un rischio?

L’estrazione di minerali dai fondali oceanici è un’attività sempre più richiesta dalle industrie a livello globale, ma rischia di creare più problemi di quelli che cerca di risolvere.

Per deep sea mining si intendono le attività di estrazione e recupero dei depositi minerari dai fondali marini, i cosiddetti “abissi” oltre i 200 m di profondità, che ricoprono circa il 65% della superficie terrestre. Questi metalli super ricercati non sono necessariamente solo quelli preziosi. Oro, argento, rame, cobalto, nichel, manganese e zinco possono tutti essere adoperati per scopi diversi, in particolar modo nella realizzazione di circuiti elettronici, cavi elettrici e batterie elettriche. Con il progredire della transizione energetica e l’abbandono dei combustibili fossili in favore delle fonti rinnovabili, la richiesta di questi metalli non farà che aumentare. Oltre agli utilizzi già citati, possono infatti risultare utili nella realizzazione di dispositivi legati alle energie rinnovabili, come i pannelli solari. 

 

Come funziona il deep sea mining | China Dialogue Ocean

Attualmente, le fonti estrattive sono due: le sorgenti idrotermali e i noduli metallici. Le prime sono fratture createsi in corrispondenza di faglie o dorsali oceaniche, da cui sgorga acqua ad altissime temperature (fino a 400° C). Quest’ultima, a contatto con l’acqua fredda dei fondali, crea formazioni solide simili a stalagmiti che contengono minerali disciolti, risultato di un’attività geotermica millenaria. I noduli metallici sono invece formazioni minerali di forma sferica, dal diametro di alcuni centimetri, che possono essere parzialmente sepolte. In generale, le sorgenti idrotermali contengono più metalli preziosi, mentre i noduli metallici sono fonte di rame, manganese, zinco e cobalto e, secondo gli studi effettuati fino a questo momento, sembrerebbero più semplici da estrarre.

 

Per deep sea mining si intende l’estrazione e il recupero dei depositi minerari dai fondali marini, i cosiddetti “abissi” oltre i 200 m di profondità, che ricoprono circa il 65% della superficie terrestre. 

A livello globale, per governi e investitori privati, la corsa all’estrazione dai fondali è cominciata già da alcuni anni. L’International Seabed Authority (ISA), organismo dell’ONU con il mandato di supervisionare l’estrazione di risorse dal fondo dell’oceano nelle aree al di fuori della giurisdizione nazionale, ha emesso all’incirca 30 permessi esplorativi per l’esplorazione dei depositi minerari in acque profonde. L’area di maggior interesse è la Clarion Clipperton Zone (CCZ). Una sorta di moderna Eldorado, che si estende per 6 milioni di km2 tra le Hawaii e il Messico e sembra essere particolarmente ricca di noduli polimetallici. In attesa del via libera definitivo da parte dell’ISA, tutte le società in possesso di una licenza hanno già cominciato a raccogliere ingenti capitali per finanziare la realizzazione degli impianti e le operazioni estrattive. Attività che al momento risultano estremamente costose.

Fondali della Clarion-Clipperton Fracture Zone | Immagine di Craig Smith e Diva Amon, ABYSSLINE Project

Le attività di deep sea mining hanno tuttavia sollevato numerose critiche da parte degli scienziati, che mettono in guardia dal pericolo di causare danni irreversibili agli ecosistemi oceanici, di cui al momento conosciamo ancora troppo poco. L’anno scorso la ONG MiningWatch Canada, insieme alla Ocean Foundation’s Deep Sea Mining Campaign, ha pubblicato un report sintetizzando questi rischi e chiedendo una moratoria sui regolamenti che permetterebbero alle aziende di iniziare le attività di estrazione nei fondali del Pacifico, almeno fino a quando non si comprenderanno meglio i rischi connessi al deep sea mining e tutte le alternative saranno “pienamente esplorate e applicate”. 

 

Alcune ONG hanno chiesto una moratoria sui regolamenti che permetterebbero le attività estrattive nei fondali del Pacifico, almeno fino a quando non si comprenderanno meglio i rischi connessi ad esse e tutte le alternative saranno “pienamente esplorate e applicate”. 

 

L’ISA, intanto, sta lavorando sul Mining Code, il codice che regola le operazioni di sfruttamento dei fondali e che costituirà il quadro giuridico internazionale al quale tutte le attività di deep sea mining dovrebbero rifarsi. Il nuovo codice dovrebbe includere standard ambientali più rigorosi, stabilendo, per esempio, dei valori di soglia che valutino l’impatto ambientale delle operazioni e impongano una serie di indicatori per monitorare la salute dell’ecosistema. 

Nonostante le raccomandazioni degli studiosi, alcune società hanno avviato le attività di estrazione in acque territoriali, che non rientrano nella giurisdizione dell’ISA: è il caso di De Beers Group in Namibia, Nautilus Minerals in Papua Nuova Guinea; a Okinawa, il governo del Giappone ha avviato le attività di deep sea mining e, secondo fonti recenti, anche la Norvegia lo farà a partire dal 2023.