Investimenti e Tecnologie

È un momento decisivo per il futuro dei porti

La crisi globale dei porti ha conseguenze sempre più impattanti sul trasporto di merci di prima necessità e materie prime. Serve ripensare i sistemi portuali investendo in innovazione tecnologica, digitalizzazione e sostenibilità.

Negli ultimi mesi si è cominciato a parlare sempre più frequentemente della crisi che ha colpito il trasporto marittimo a livello globale, causando un’impennata dei costi di spedizione e difficoltà nell’approvvigionamento delle materie prime. Le tariffe di trasporto transoceanico sono schizzate alle stelle, oltre il 460% nell’ultimo anno. A causare l’aumento dei costi di spedizione è stata l’impennata degli acquisti online durante la pandemia, incoraggiata dalla promessa di ottenere un servizio sempre più veloce ed efficiente, grazie all’aumento dell’automazione e all’espansione del micro-fulfillment.

Secondo Forbes, questo ha fatto sì che il traffico delle navi container aumentasse, mentre il numero di navi e di lavoratori portuali rimaneva insufficiente per evadere le consegne entro le date richieste; a ciò si aggiunge una carenza di materiali semiconduttori che rallenta la produzione di nuovi camion e, anche qui, una mancanza di personale in grado di gestire i carichi esistenti. A causa del congestionamento dei porti, milioni di prodotti sono rimasti bloccati, con un conseguente aumento dei prezzi che, oltre a frenare la produzione di nuovi beni, fa salire l’inflazione in diversi Paesi. 

Foto di K. Mitch Hodge | Unsplash

I dati forniti dal Financial Times confermano che il prezzo di un container di 12 m instradato dall’Asia al Nord Europa è salito da 2.000 a 9.000 dollari, mentre la CNBC riporta che il costo delle merci trasportate dall’Asia alla costa occidentale dell’America è aumentato del 145%. Da luglio 2020, la domanda di materie prime, attrezzature mediche, attrezzature informatiche per implementare lo smart working hanno costretto a importare molti prodotti dalla Cina, che ha aumentato la produzione dopo mesi di sospensione del commercio a causa della pandemia. L’aumento della produzione ha provocato uno squilibrio: circa tre container destinati all’export per ogni container destinato all’import. 

In generale, si stima che ci siano più di 170 milioni di container in tutto il mondo, utilizzati per trasportare circa il 90% delle merci del mondo. Al momento, la Cina non ha abbastanza container disponibili per soddisfare la domanda proveniente dall’esterno. Reuters sostiene che “i tempi medi di rotazione dei container sono passati da 60 a 100 giorni”. 

Negli ultimi mesi si è cominciato a parlare sempre più frequentemente della crisi che ha colpito il trasporto marittimo a livello globale, causando un’impennata dei costi di spedizione e difficoltà nell’approvvigionamento delle materie prime.

Per abbattere i costi del singolo viaggio, molti armatori hanno cominciato a costruire navi cargo più grandi, anche note come Ultra Large Container Ship (ULCS) che sono in grado di trasportare più di ventimila container. Attualmente, ne esistono 85 in tutto il mondo, di cui otto ancora in cantiere. Ma il vero problema è dato dal fatto che i porti in grado di accogliere navi tanto capienti sono ancora pochi. Per adeguare le infrastrutture esistenti, ampliando gli spazi di attracco e aumentando la capacità di stoccaggio, servono investimenti cospicui che non tutti i porti, e non tutti i Paesi, sono in grado di sostenere. Anche per questo motivo, molti armatori hanno cominciato a comprare quote societarie per poter influenzare le decisioni di spesa e implementare l’uso di ULCS. 

Una conseguenza di questo processo potrebbe essere quella di accentrare la gestione dei sistemi portuali nelle mani dei grandi armatori, senza risolvere il problema del congestionamento dei porti sul lungo periodo. 

Foto di Jacob Meissner | Unsplash

La crisi in atto non fa che riconfermare la necessità di ripensare i sistemi portuali tenendo conto non soltanto dei mezzi di produzione e delle navi, ma l’intera supply chain. A giugno, un articolo su The Conversation spiegava che il trasporto marittimo rappresenta l’80% del commercio mondiale di merci all’ingrosso ed è tuttora responsabile del 3% delle emissioni globali di CO2, che negli ultimi vent’anni sono aumentate del 32%. 

Come raccontavamo qui, l’Unione Europea e i governi nazionali stanno cercando di accelerare la decarbonizzazione, promuovendo il passaggio a fonti alternative come il gas liquefatto, l’etanolo e l’idrogeno, che hanno un’impronta di carbonio notevolmente inferiore rispetto agli idrocarburi attualmente in uso. Le scelte strategiche adottate dalle autorità portuali di città come Rotterdam, Anversa, Amburgo, Le Havre (Francia) sono un ottimo esempio di come sia possibile riprogettare l’industria marittima investendo in sostenibilità, innovazione tecnologica e digitalizzazione. L’International Maritime Organization (IMO) auspica di ridurre le emissioni di gas serra prodotte dal trasporto marittimo di almeno il 50% entro il 2050, anche se l’obiettivo è quello di azzerarle completamente. C’è una notevole incertezza su come queste ambizioni saranno raggiunte, ma un punto di partenza potrebbe essere rappresentato dalla progettazione di navi a zero emissioni di carbonio entro il 2030.