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Cosa si è detto a Glasgow

COP26 è stata l’occasione per rivedere gli obiettivi fissati dall’Accordo di Parigi.

Dal 31 ottobre al 12 novembre si è svolta a Glasgow COP26, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. La prima si svolse a Berlino nel 1995 (a guidarla fu Angela Merkel, all’epoca Ministra dell’Ambiente in Germania). Da allora, l’evento si ripete ogni anno per mantenere accesi i riflettori sul cambiamento climatico, ridiscutere gli sforzi compiuti dai singoli Paesi e settare nuovi obiettivi. 

Nel 2015, per esempio, alla COP21 ospitata dalla Francia, venne ratificato il famoso Accordo di Parigi. In quell’occasione le parti si erano impegnate a ridurre le emissioni di gas serra attraverso azioni quantificabili, determinate su base nazionale e note come National Determined Contributions (NDC), cioè contributi determinati a livello nazionale. L’Accordo imponeva inoltre di rivedere gli obiettivi fissati a cadenza quinquennale. COP26 è stata dunque l’occasione per ridiscutere i punti salienti della conferenza del 2015 e, almeno in via teorica, rafforzare gli sforzi. 

Al termine dei negoziati, i 197 Paesi hanno ratificato il Glasgow Climate Pact, un accordo divisivo che ha suscitato alcune critiche, ma, secondo alcuni, rappresenta il miglior compromesso possibile al momento. Lo stesso Alok Sharma, Presidente di COP26, ha parlato di una “vittoria fragile”. 

Alok Sharma, Presidente di COP26, ha definito il Glasgow Climate Pact una “vittoria fragile”.

Parlando dei risultati raggiunti, per la prima volta è stato introdotto un riferimento esplicito alla necessità di ridurre il consumo di carbone, che attualmente rappresenta il 40% dell’anidride carbonica emessa a livello globale. Nella sessione finale, tuttavia, l’India ha ottenuto un emendamento con delle attenuanti riguardanti il carbone, che smorza di fatto l’efficacia dell’impegno preso. 

In merito all’abolizione dei combustibili fossili, il documento finale non parla di phase out (eliminazione graduale), come originariamente proposto, ma di phase down (riduzione graduale). Riguardo al raggiungimento della neutralità climatica (che UE e Stati Uniti hanno fissato entro il 2050), Cina e India hanno chiesto di posticipare il termine, rispettivamente al 2060 e 2070. 

A livello politico, la questione del cambiamento climatico dipende ancora moltissimo dal divario tra le economie emergenti, che per raggiungere determinati standard di progresso si affidano ancora a combustibili fossili, e quelle più avanzate, che portano avanti già da tempo percorsi di transizione energetica. Sono queste ultime a doversi far carico della questione ambientale, aiutando i Paesi in via di sviluppo a raggiungere la neutralità climatica in tempi ragionevoli. 

L’UE, per esempio, ha fissato un obiettivo di riduzione dei gas serra del 55% entro il 2030, che è anche uno dei punti cardine del Green Deal. A luglio, la Commissione europea aveva anche adottato un pacchetto noto come Fit for 55 che dovrebbe servire a velocizzare l’approvazione delle proposte legislative in materia di cambiamento climatico, affinché diventino esecutive all’interno dei singoli Stati membri. 

L’impegno europeo, tuttavia, da solo, non basta. Le emissioni prodotte dall’UE rappresentano all’incirca l’8% di quelle globali, e hanno quindi un’incidenza minima paragonate a quelle di altre potenze mondiali. Alle strategie europee vanno quindi affiancate altre iniziative volte a sostenere la cooperazione con Paesi terzi. 

A tal proposito, verranno raddoppiati i fondi per le azioni di adattamento, al fine di sostenere i paesi più vulnerabili e predisporre strumenti finanziari per minimizzare le perdite e i danni (Loss and Damage) conseguenti al cambiamento climatico. 

Le economie più avanzate devono farsi carico della questione ambientale, aiutando i Paesi in via di sviluppo a raggiungere la neutralità climatica in tempi ragionevoli.

Se l’Accordo di Parigi imponeva di mantenere la temperatura globale al di sotto dei 2°C, a Glasgow si è stabilito di abbassare ulteriormente il limite a 1,5°C. Secondo il Climate Action Tracker però, a prescindere dagli obiettivi fissati per il 2050, i target attualmente previsti per il 2023 presuppongono un aumento delle temperature di 2,4°C entro la fine del secolo, ben oltre il limite di 1,5°C. Questo risulta ancor più vero se si considera che Paesi come Cina e India hanno dichiarato di non poter raggiungere la neutralità climatica entro i tempi previsti dall’Europa e dagli Stati Uniti.

Glasgow Science Centre | Unsplash.

Occorre considerare come per decenni i Paesi occidentali hanno spostato la produzione a sud e a est, rendendosi responsabili di buona parte delle emissioni di cui oggi devono rispondere i governi asiatici e africani. Allo stato attuale delle cose, è difficile pensare che questi Paesi migrino verso un’economia basata su fonti di energia rinnovabili negli stessi tempi di economie più sviluppate e, per certi versi, meno inquinanti.

Forse il risultato più eclatante di COP26 è stato proprio quello di rendere ancora più noto quanto la lotta al cambiamento climatico rappresenti una responsabilità “diffusa”, della quale non solo i governi nazionali, ma anche le aziende, gli investitori e i singoli individui devono farsi carico, ciascuno in misura diversa.