Ambiente Futuro

L’effetto della guerra sul taglio delle emissioni

La lotta al cambiamento climatico ha subito un arresto, con conseguenze sulle ambizioni energetiche dell’Europa (e del mondo)

L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e le conseguenti sanzioni l’hanno di fatto estromessa dalla lotta globale al cambiamento climatico. 

Secondo alcuni analisti, le emissioni complessive della Russia sono destinate a diminuire entro la fine del 2022 a causa della contrazione dell’economia, ma le industrie nazionali non saranno in grado di ridurre l’inquinamento da carbonio con la stessa rapidità del periodo precedente alla guerra e, in stato emergenziale, potrebbero addirittura venir meno agli impegni adottati finora. 

Inoltre, man mano che i paesi e le aziende straniere hanno cominciato a rivedere i propri rapporti commerciali con la Russia, le pressioni esercitate dall’esterno per spingere il Paese a ridurre le emissioni si sono affievolite.

(Progetto grafico: Futura)

Come spiega BloombergNEF, l’economia russa continua a dipendere profondamente dai combustibili fossili: carbone e gas generano circa il 58% del fabbisogno energetico del Paese. L’energia idroelettrica e il nucleare hanno raggiunto una quota del 40% nel 2020, mentre l’eolico e il solare sono a malapena presenti nel mix energetico nazionale.

Negli ultimi due decenni, ci sono stati progressi nella riduzione delle emissioni derivanti dalla produzione di ferro e acciaio, responsabili del 6% circa dei gas serra. Le acciaierie hanno speso decine di miliardi di dollari per aggiornare e ricostruire i vecchi impianti dell’epoca sovietica, affidandosi a competenze e tecnologie straniere. Un modo per ridurre significativamente l’inquinamento derivante dalla produzione d’acciaio è produrre una tipologia di ferro nota come HBI, che genera una quantità di anidride carbonica inferiore del 35-40% rispetto a quella emessa dai processi tradizionali, con gli altiforni alimentati a carbone.

(Progetto grafico: Futura)

A ottobre 2021, Metalloinvest Holding Co., il più grande produttore russo di ferro, aveva siglato un contratto da 600 milioni di dollari per costruire un nuovo impianto HBI nei pressi della sua miniera di Lebedinsky. Un altro impianto HBI dal valore di 540 milioni di dollari doveva essere costruito nella miniera Mikhailovsky. I nuovi impianti avrebbero dovuto rifornire i suoi clienti in Europa, riducendo i costi per importare materie prime ad alto impatto energetico. Anche altri produttori di acciaio stavano considerando di aumentare la produzione di HBI per rendere l’acciaio russo più “green” e ridurre il prezzo delle esportazioni. Tuttavia, se l’attuale situazione geopolitica e le sanzioni imposte rimarranno in vigore sul lungo periodo, questi progetti potrebbero non vedere mai la luce.

Lo stesso problema riguarda l’industria russa dell’alluminio, che rappresenta il 10% del mercato globale. United Co. Rusal International PJSC, il principale produttore russo di questo metallo, non è sottoposto a sanzioni, ma deve affrontare sfide logistiche e una carenza di importazioni di allumina, la materia prima necessaria per produrre il metallo, causata dalla guerra e dal divieto di esportazione imposto dall’Australia.

È ancora troppo presto per dire quale sarà l’impatto delle sanzioni sull’economia russa e, di conseguenza, sulle emissioni. La Banca Mondiale stima che il prodotto interno lordo potrebbe ridursi di oltre il 10% quest’anno e la Banca Centrale ha messo in guardia rispetto al rischio di una “industrializzazione al contrario” che aumenterà gli sprechi e l’inquinamento.

(Progetto grafico: Futura)

Quel che è abbastanza certo è che questa situazione avrà ripercussioni sulle ambizioni climatiche dell’intera Europa, dato che la transizione energetica ha aumentato la domanda di numerosi metalli: dal nichel necessario a costruire le nuove batterie per i veicoli elettrici, al rame utile per l’aggiornamento della rete elettrica, all’acciaio utilizzato per rendere i nuovi edifici più efficienti dal punto di vista energetico. La guerra stessa produce un impatto negativo sulla riduzione delle emissioni a livello globale. L’impennata dei prezzi dell’energia sta inoltre facendo aumentare la domanda di combustibili fossili. 

La Commissione europea ha recentemente presentato il piano REPowerEU, che prova a far fronte alla crisi energetica globale aggravata dall’invasione russa dell’Ucraina. Gli obiettivi prioritari sono ridurre la dipendenza dell’UE dai combustibili fossili russi, che costano ai contribuenti europei quasi 100 miliardi di euro all’anno, e far fronte all’inarrestabile crisi climatica. Le misure messe a punto dal REPowerEU si focalizzano su tre punti: risparmio energetico, diversificazione delle forniture energetiche e accelerazione della diffusione delle energie rinnovabili in sostituzione dei combustibili fossili nelle abitazioni, nell’industria e nella produzione di energia. 

Sul breve periodo, comunque, ridurre le importazioni di gas russo significa aumentare le importazioni di gas naturale dall’estero. Il 25 marzo, il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden si è impegnato ad aumentare le importazioni di gas naturale liquefatto in Europa e la Germania ha già firmato un accordo per importare il prodotto dal Qatar. Le istituzioni europee hanno inoltre avviato colloqui con il Giappone e la Corea del Sud per reindirizzare una parte del gas naturale liquefatto destinato a uso interno.

Se da una parte, quindi, il proseguire della guerra in Ucraina provocherà l’abbandono progressivo dei combustibili fossili da parte dell’Europa, dall’altra potrebbe rallentare il taglio delle emissioni. Secondo Nikos Tsafos, Chief Energy Adviser presso il Center For Strategic and International Studies, un think tank di Washington DC, il Sud-Est asiatico potrebbe tornare a puntare sul carbone se l’Europa dovesse effettivamente mettere all’angolo il mercato internazionale del gas naturale liquefatto.

6 giugno 2022