Ambiente Futuro

Il Regno Unito è a corto di CO2

L’aumento dei prezzi del gas naturale ha provocato una carenza di scorte, con conseguenze su diverse industrie, specialmente quella alimentare.

Nelle ultime settimane, il Regno Unito ha rischiato di rimanere senza anidride carbonica. Una notizia che potrebbe sembrare addirittura positiva. Soprattutto se si pensa che, a fine 2020, il Paese aveva annunciato di voler ridurre le emissioni di almeno il 68% entro il 2030. Recentemente, aveva anche dichiarato di voler offrire 200 milioni di sterline alle imprese per aiutarle ad abbattere la produzione di gas serra. 

A settembre, il governo britannico ha dovuto concedere alcune decine di milioni a un’azienda di fertilizzanti affinché producesse ingenti volumi di CO₂  nel minor tempo possibile. Se da una parte, quindi, incoraggia il taglio delle emissioni, dall’altra teme disperatamente di esaurire le scorte esistenti. 

Come si spiega questo paradosso? Innanzitutto occorre spiegare che, al netto dei virtuosi obiettivi di lungo periodo, uno dei principali utilizzatori di biossido di carbonio in Europa risulta essere proprio il Regno Unito, che attualmente ne emette 350 milioni di tonnellate all’anno. 

Se da una parte, incoraggia il taglio delle emissioni, dall’altra il governo britannico teme disperatamente di esaurire le scorte esistenti.

L’anidride carbonica trova applicazione in moltissimi settori, come l’imballaggio di alimenti, il raffreddamento delle centrali nucleari, il trasporto di forniture medicali (come ad esempio i vaccini), oltre che in alcune fasi della macellazione del bestiame. 

Per ottenere anidride carbonica abbastanza pura da poter essere utilizzata nel settore industriale e, specialmente in quello alimentare sono necessarie attrezzature specifiche. La purificata viene prodotta in pochissimi siti specializzati in tutto il Regno Unito. Questi ultimi vendono l’anidride carbonica alle compagnie che trattano gas che la purificano prima di poterla vendere a loro volta. 

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Fino a poco tempo fa, il Paese poteva contare su una fornitura costante di CO₂  proveniente da due impianti di fertilizzazione situati nel Nord dell’Inghilterra, di proprietà della multinazionale statunitense CF Industries, che coprivano il 60% del fabbisogno nazionale. Un altro 20% viene prodotto da altri impianti sparsi sul territorio, mentre il restante viene importato da oltreoceano. 

I problemi sono cominciati quando la CF Fertilisers ha deciso di interrompere la produzione dei due impianti britannici, a causa dell’impennata dei prezzi del gas naturale. Le prospettive di questo fermo della produzione erano così catastrofiche che Richard Walker, amministratore delegato della catena di supermercati Iceland, ha twittato che la carenza di CO₂  era una “questione di sicurezza nazionale” di cui lo Stato avrebbe dovuto farsi carico.

Fino a poco tempo fa, il Paese poteva contare su una fornitura costante di CO₂  proveniente da due impianti di fertilizzazione situati nel Nord dell’Inghilterra, che coprivano il 60% del fabbisogno nazionale.

Nel 2019, un report di Global Counsel per la Food&Drink Federation spiegava la carenza di biossido di carbonio avvenuta nel 2018, stilando un catalogo di vulnerabilità legate alla produzione e approvvigionamento di questo gas. Tra le principali cause si individuavano la presenza di pochi produttori nel Paese e il fatto che i fornitori avessero a disposizione pochissime riserve sul territorio. Gli autori del report sottolineavano come incidenti simili non erano da considerarsi eventi isolati e raccomandavano di prendere provvedimenti in tal senso. 

Come riportato anche da Wired, ci si potrebbe chiedere perché il governo britannico non abbia pensato di acquistare il gas da altri Paesi che ne avevano un surplus, invece di rivolgersi a una società privata. Secondo Laurence Harwood, professore emerito all’Università di Reading, il trasporto di CO₂  risulta particolarmente costoso, perché richiede navi o camion appositamente attrezzati. Spendere così tanto per un sottoprodotto dal costo relativamente contenuto non è conveniente.

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Per evitare il problema in futuro sarebbe necessario fare affidamento su una gamma diversificata di fonti. Una delle opzioni al vaglio è quella di implementare l’utilizzo di tecnologie di carbon capture and storage in abbinamento alle infrastrutture che emettono CO₂, come le centrali elettriche a combustibile fossile, per garantire al Paese una fornitura costante di questo gas, che andrebbe poi ulteriormente purificato per l’uso in ambito alimentare, ma a costi vantaggiosi rispetto a quelli di trasporto dall’estero. 

D’altro canto, secondo un documento pubblicato dal Department for Business, Energy  and Industrial Strategy (BEIS), nel Regno Unito il settore di cattura e stoccaggio di CO₂  (CCUS) potrebbe avere una rapida ascesa, creando circa 50.000 posti di lavoro entro il 2050, se riuscirà a raggiungere l’obiettivo di catturare e conservare 10 milioni di tonnellate di CO₂  entro il 2030.